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IL VERDETTO DEL MAGGIORE

di Giancarlo De Cataldo

Il maggiore P. era fuori di sé. Quel verdetto di assoluzione gridava vendetta. Lo sapevano tutti che quei maledetti stranieri erano colpevoli. Lo sapevano d'istinto. Perché erano stranieri, e per giunta malavitosi. Che bisogno c'era di una giuria, di prove, di tutta quella maledetta perdita di tempo che chiamano 'processo'? Bastavano un po' di corde insaponate e un palo, e la giustizia sarebbe stata fatta. Perciò, quando la folla si radunò sotto la Corte, il maggiore P. e i suoi cinquanta amici, tutte brave persone, onesti cittadini, cominciarono a distribuire corde, mazze e bastoni e, prima che i poliziotti di guardia avessero il tempo di intervenire, mossero all'assalto del palazzo urlando 'gliela faremo vedere noi a quei bastardi!', urlando 'avanti, cittadini, questa è casa nostra, e non permetteremo che ce la portino via!'. Le più caritatevoli fra le guardie andarono dai prigionieri, che attendevano di essere liberati dopo l'assoluzione, e li convinsero a mescolarsi con gli altri detenuti. Ma la loro pelle chiara li tradiva, nella massa dei neri che attendevano rassegnati il verdetto. E la loro stessa lingua, incerta nella pronuncia, li tradiva. Il maggiore P. e i suoi uomini entrarono nel Palazzo senza incontrare nessuna resistenza. Presero chi dovevano prendere e inscenarono il rito purificatore. Qualcuno fu appeso per il collo, qualcun altro massacrato a bastonate. Risparmiarono un ragazzino, giovanissimo e spaventato: non perché il maggiore P. facesse distinzioni fra straniero buono e cattivo, ma perché i morti ragazzini commuovono l'opinione pubblica, e meglio, dunque, non correre il rischio di passare, da eroi, per carnefici. Alla fine della giornata restarono sul terreno undici vittime. Undici sporchi italiani di meno sulla faccia della terra. A New Orleans era il 13 marzo 1891.
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