Non avevo prenotato. Quel nome—Ivonne90—mi era sembrato più una suggestione che una promozione. Arrivai tardi, quando la cena si stava già spegnendo come brace sotto la cenere. Poco importava. In certi posti, il tempo ha un altro passo. E la fame, a volte, non è per il cibo.
Il locale si apriva largo e profondo, con stanze che sembravano raccontare epoche diverse. Alcune erano state rinnovate, altre portavano i graffi delle notti passate, come ricordi incisi sul legno. Camminai piano, lasciando che l’ambiente mi assorbisse, fino a raggiungere la zona estiva. E lì, sotto un cielo ancora tiepido d’estate, succedeva qualcosa.
C’erano loro: i funamboli. Non avevano costumi da scena, solo abiti normali e occhi che conoscevano l’equilibrio. Camminavano su corde tese sopra la piscina, danzando con il rischio come se fosse un vecchio amico. Le fiamme dei loro attrezzi riflettevano sull’acqua, disegnando figure impossibili. Il pubblico respirava piano, temendo che anche un applauso potesse spezzare la magia. Attorno, mojiti trascurati e sdraio lasciate in bilico tra l’abbandono e l’attesa. Il chiringuito serviva sorrisi alcolici e promesse ghiacciate al gusto lime.
Tornai dentro con un languore nuovo. Il buffet era ancora vivo, anzi, pulsava. La cucina sembrava non fermarsi mai. Uscivano pizze con mozzarella ancora in lotta contro il coltello, paste calde e fredde, involtini dal profumo deciso. C’era vita lì, un’energia che smentiva l’idea della cena finita. Quel buffet non era un riempitivo, era un rituale.
La musica attaccò come un battito improvviso. La pista si animò di corpi che non cercavano giudizio, solo ritmo. Coppie, single, volti nuovi e volti di casa. Le stanze si aprivano come parentesi su qualcosa di più intimo, alcune si chiudevano, altre restavano socchiuse. Bastava poco per scivolare oltre.
E poi, più in fondo, c’era la zona meno curata. Le pareti in legno leggero tremavano leggermente al passaggio. Lì, alcune aperture più larghe del consueto lasciavano spazio all’ignoto. C’era un silenzio carico, come un respiro trattenuto. Mani sfioravano quegli spazi, esplorando senza vedere. Nessun cartello, nessuna spiegazione. Solo la possibilità. Imperfetto, sì, ma proprio per questo più vero. Come certi istinti che non chiedono il permesso di esistere.
Quando me ne andai, l’alba era già un’idea dietro le colline. Passai dai bagni e notai qualcosa che mi fece sorridere: piccoli erogatori di collutorio accanto agli specchi. Come se anche qui, dove tutto è corpo, qualcuno avesse pensato al respiro del mattino.
Il locale si apriva largo e profondo, con stanze che sembravano raccontare epoche diverse. Alcune erano state rinnovate, altre portavano i graffi delle notti passate, come ricordi incisi sul legno. Camminai piano, lasciando che l’ambiente mi assorbisse, fino a raggiungere la zona estiva. E lì, sotto un cielo ancora tiepido d’estate, succedeva qualcosa.
C’erano loro: i funamboli. Non avevano costumi da scena, solo abiti normali e occhi che conoscevano l’equilibrio. Camminavano su corde tese sopra la piscina, danzando con il rischio come se fosse un vecchio amico. Le fiamme dei loro attrezzi riflettevano sull’acqua, disegnando figure impossibili. Il pubblico respirava piano, temendo che anche un applauso potesse spezzare la magia. Attorno, mojiti trascurati e sdraio lasciate in bilico tra l’abbandono e l’attesa. Il chiringuito serviva sorrisi alcolici e promesse ghiacciate al gusto lime.
Tornai dentro con un languore nuovo. Il buffet era ancora vivo, anzi, pulsava. La cucina sembrava non fermarsi mai. Uscivano pizze con mozzarella ancora in lotta contro il coltello, paste calde e fredde, involtini dal profumo deciso. C’era vita lì, un’energia che smentiva l’idea della cena finita. Quel buffet non era un riempitivo, era un rituale.
La musica attaccò come un battito improvviso. La pista si animò di corpi che non cercavano giudizio, solo ritmo. Coppie, single, volti nuovi e volti di casa. Le stanze si aprivano come parentesi su qualcosa di più intimo, alcune si chiudevano, altre restavano socchiuse. Bastava poco per scivolare oltre.
E poi, più in fondo, c’era la zona meno curata. Le pareti in legno leggero tremavano leggermente al passaggio. Lì, alcune aperture più larghe del consueto lasciavano spazio all’ignoto. C’era un silenzio carico, come un respiro trattenuto. Mani sfioravano quegli spazi, esplorando senza vedere. Nessun cartello, nessuna spiegazione. Solo la possibilità. Imperfetto, sì, ma proprio per questo più vero. Come certi istinti che non chiedono il permesso di esistere.
Quando me ne andai, l’alba era già un’idea dietro le colline. Passai dai bagni e notai qualcosa che mi fece sorridere: piccoli erogatori di collutorio accanto agli specchi. Come se anche qui, dove tutto è corpo, qualcuno avesse pensato al respiro del mattino.