L’angolo perfetto (parte prima)
Non le importa se dobbiamo fare qualche chilometro di troppo, i suoi occhi non comunicano fretta. Sbatte le palpebre e ne escono ogni volta scintille sensuali. Mi ha stregato con lo sguardo, contornato, l’occhio di Horus. Dagli angoli degli occhi due strisce sottili si allungano verso le orecchie, le carnose orecchie liberate dai riccioli che ha raccolto e legato dietro la nuca.
Si è tolta il giubbetto di pelle con fare elegante. Lo ha piegato e riposto sul sedile posteriore.
Le braccia abbronzate si alzano e scivolano dietro la testa nel gesto usuale della donna che si lega i capelli, mentre il laccio arancione le penzola dolcemente da un angolo della bocca. Dalle ascelle si spande nell’abitacolo un dolce profumo di mughetto. Un persistente profumo che per un attimo mi inebria e mi instrada sui boscosi sentieri della mia gioventù, quando ogni pianta era una dolce scoperta.
Mi guarda, mi sorride. I muscoli torniti delle braccia lavorano sicuri e veloci per concludere l’opera, per rassettare la chioma.
Mi sento a mio agio, riprovo una sensazione che da tempo ritenevo ormai sconosciuta. Che cosa sto facendo?
La scintilla degli occhi, negli occhi, è quella che rimbalza dalle sue gambe accavallate ad ogni luce dei lampioni che veloci costeggiamo. Lei è un’ombra che appare e scompare a squassare l’anima. La lotta tra un sentimento nuovo, improvviso e la ragione che lo ributta nell’angolo oscuro dell’anima, a soffocarlo.
Si volta appena verso di me e mi osserva silente. Si disegna una leggera smorfia… no, non è una smorfia, è un sorriso materno. Di una madre che osserva un cucciolo smarrito. Allunga il braccio verso di me. Mi sfiora appena, lo alza. Insinua la sua mano tra il poggiatesta e la nuca. L’indice e il pollice, lievi, leggeri, sensuali a sfiorarmi. E’ un movimento lento, suadente, continuo.
La sua carezza, le sue carezze, sono le parole che non dice. I mei brividi, in quel caldo afoso, mitigato dalla velocità della macchina lanciata in tangenziale, la risposta che cerca.
Quanto tempo passa? Dieci minuti, venti? Forse trenta… ma non importa il tempo, non importa ciò che faremo, non importa ciò che ci diremo. E’ l’attimo che spalanca all’eterno, che fonde il presente con tutta la vita.
Mi ridesto dal torpore per un attimo. Siamo arrivati. Cerco di non far rumore. Il cuore della notte amplifica i rumori. Ma come può non far rumore un cancello che si apre, il motore di una macchina che pur scivola in folle lungo una rampa d’accesso?
Ora siamo stati inghiottiti dal tunnel dei box, ora la stridente frenata è attutita dalle viscere del palazzo. Parcheggio davanti al box di papà, in un gesto usuale conosciuto da tutti gli inquilini, che niente avranno da ridire. Miryam si è rimessa la giacchetta, l’ha chiusa, quasi in segno di pudore. E’ scesa e cammina buffamente a passettini sui tacchi. Ride sommessamente, cercando di nascondersi a fianco del mio corpo. Il ticchettio dei suoi passi rimbomba nella caverna dei box. Ride al rumore. E il riso si mischia al ticchettio.
Un’avventura da ragazzini. Stiamo vivendo l’avventura dei ragazzini. Quella con la A maiuscola, quella che ricorderai per tutta la vita.
Non può nascondersi dietro di me, coi tacchi è alta come me. Si stringe a me col corpo, le sue braccia cingono il mio braccio, abbassa la testa, i riccioli si sfregano sulla mia spalla. E ride. Sommessamente ride. Il riso dei bambini colti con le mani nella marmellata. La dolce marmellata.
In ascensore. Finalmente in ascensore si stacca, si appoggia con la schiena alla parete e mi guarda.
Ho ancora indosso la giacca. Non l’ho levata. Con le mani mi prende il bavero e me lo rassetta. Piega la testa a vedere l’opera. Mi passa la mano sulle spalle. Quasi mi sgrida: “Tienes un poquito de caspa…”
La forfora.
Mi sento rassicurato. E’ come se tutto stia tornando alla normalità. Alla normalità di un tempo. Ad un gesto d’affetto ormai quasi dimenticato. E il rimorso che per un attimo, solo per un attimo aveva fatto capolino, sparisce, evaporato col caldo umido della notte.
Sul pianerottolo ricomincia a ridere, cerca di nascondersi alla vista dello spioncino dei Brambilla. Ma è come l’Occhio di Sauron, impossibile da evitare. Bisogna sperare che i suoi servitori non si destino all’improvviso dal sonno notturno…
Infilo la chiave nella toppa e ad ogni giro mi sembra di risvegliare l’universo. La seconda chiave, quella piccola, della serratura di sicurezza, incontra la solita resistenza. Devo mettere un po’ di olio nel meccanismo. Papà non bada mai a queste cose…
Finalmente la porta blindata si apre. Miryam scivola veloce all’interno. La seguo e chiudo la porta.
In caso di Necessita' Contattate il Nostro Moderatore GIZUR
Non le importa se dobbiamo fare qualche chilometro di troppo, i suoi occhi non comunicano fretta. Sbatte le palpebre e ne escono ogni volta scintille sensuali. Mi ha stregato con lo sguardo, contornato, l’occhio di Horus. Dagli angoli degli occhi due strisce sottili si allungano verso le orecchie, le carnose orecchie liberate dai riccioli che ha raccolto e legato dietro la nuca.
Si è tolta il giubbetto di pelle con fare elegante. Lo ha piegato e riposto sul sedile posteriore.
Le braccia abbronzate si alzano e scivolano dietro la testa nel gesto usuale della donna che si lega i capelli, mentre il laccio arancione le penzola dolcemente da un angolo della bocca. Dalle ascelle si spande nell’abitacolo un dolce profumo di mughetto. Un persistente profumo che per un attimo mi inebria e mi instrada sui boscosi sentieri della mia gioventù, quando ogni pianta era una dolce scoperta.
Mi guarda, mi sorride. I muscoli torniti delle braccia lavorano sicuri e veloci per concludere l’opera, per rassettare la chioma.
Mi sento a mio agio, riprovo una sensazione che da tempo ritenevo ormai sconosciuta. Che cosa sto facendo?
La scintilla degli occhi, negli occhi, è quella che rimbalza dalle sue gambe accavallate ad ogni luce dei lampioni che veloci costeggiamo. Lei è un’ombra che appare e scompare a squassare l’anima. La lotta tra un sentimento nuovo, improvviso e la ragione che lo ributta nell’angolo oscuro dell’anima, a soffocarlo.
Si volta appena verso di me e mi osserva silente. Si disegna una leggera smorfia… no, non è una smorfia, è un sorriso materno. Di una madre che osserva un cucciolo smarrito. Allunga il braccio verso di me. Mi sfiora appena, lo alza. Insinua la sua mano tra il poggiatesta e la nuca. L’indice e il pollice, lievi, leggeri, sensuali a sfiorarmi. E’ un movimento lento, suadente, continuo.
La sua carezza, le sue carezze, sono le parole che non dice. I mei brividi, in quel caldo afoso, mitigato dalla velocità della macchina lanciata in tangenziale, la risposta che cerca.
Quanto tempo passa? Dieci minuti, venti? Forse trenta… ma non importa il tempo, non importa ciò che faremo, non importa ciò che ci diremo. E’ l’attimo che spalanca all’eterno, che fonde il presente con tutta la vita.
Mi ridesto dal torpore per un attimo. Siamo arrivati. Cerco di non far rumore. Il cuore della notte amplifica i rumori. Ma come può non far rumore un cancello che si apre, il motore di una macchina che pur scivola in folle lungo una rampa d’accesso?
Ora siamo stati inghiottiti dal tunnel dei box, ora la stridente frenata è attutita dalle viscere del palazzo. Parcheggio davanti al box di papà, in un gesto usuale conosciuto da tutti gli inquilini, che niente avranno da ridire. Miryam si è rimessa la giacchetta, l’ha chiusa, quasi in segno di pudore. E’ scesa e cammina buffamente a passettini sui tacchi. Ride sommessamente, cercando di nascondersi a fianco del mio corpo. Il ticchettio dei suoi passi rimbomba nella caverna dei box. Ride al rumore. E il riso si mischia al ticchettio.
Un’avventura da ragazzini. Stiamo vivendo l’avventura dei ragazzini. Quella con la A maiuscola, quella che ricorderai per tutta la vita.
Non può nascondersi dietro di me, coi tacchi è alta come me. Si stringe a me col corpo, le sue braccia cingono il mio braccio, abbassa la testa, i riccioli si sfregano sulla mia spalla. E ride. Sommessamente ride. Il riso dei bambini colti con le mani nella marmellata. La dolce marmellata.
In ascensore. Finalmente in ascensore si stacca, si appoggia con la schiena alla parete e mi guarda.
Ho ancora indosso la giacca. Non l’ho levata. Con le mani mi prende il bavero e me lo rassetta. Piega la testa a vedere l’opera. Mi passa la mano sulle spalle. Quasi mi sgrida: “Tienes un poquito de caspa…”
La forfora.
Mi sento rassicurato. E’ come se tutto stia tornando alla normalità. Alla normalità di un tempo. Ad un gesto d’affetto ormai quasi dimenticato. E il rimorso che per un attimo, solo per un attimo aveva fatto capolino, sparisce, evaporato col caldo umido della notte.
Sul pianerottolo ricomincia a ridere, cerca di nascondersi alla vista dello spioncino dei Brambilla. Ma è come l’Occhio di Sauron, impossibile da evitare. Bisogna sperare che i suoi servitori non si destino all’improvviso dal sonno notturno…
Infilo la chiave nella toppa e ad ogni giro mi sembra di risvegliare l’universo. La seconda chiave, quella piccola, della serratura di sicurezza, incontra la solita resistenza. Devo mettere un po’ di olio nel meccanismo. Papà non bada mai a queste cose…
Finalmente la porta blindata si apre. Miryam scivola veloce all’interno. La seguo e chiudo la porta.
In caso di Necessita' Contattate il Nostro Moderatore GIZUR
