5.24. Sono davanti al casello dell’autostrada, probabilmente un po’ rincoglionito, forse perché ho dormito solo un paio d’ore.
Devo fare un bel viaggetto, per accompagnare un amico a prendere un aereo, ma forse, l’unica cosa che vola è la mia mente.
Vedo strade, quasi buie, che rapidamente prendono luce.
Una confortevole oscurità, che in breve tempo si tramuta in una fastidiosa palla arancio, abbastanza scaltra da mirare dritto sui miei retrovisori
Vado e torno, maledicendo il vicino che mi ha rubato il parcheggio per pulire i vetri della macchina.
“Ma questa gente non ha voglia di dormire quando è in ferie?”
Mi rimetto a letto, frastornato, provando a recuperare un po’ del sonno perduto.
Qualche ora, finché la fame non prende il sopravvento, faccio un’improbabile colazione a base di tortelloni alle erbe e quant’altro.
Mi vedo rassettare la casa dai rimasugli della cena tra amici della sera prima.
Poi è qualcos’altro a prendere il sopravvento.
La mia consueta voglia di combinar dei danni.
Mi metto in andamento, determinato, quanto alla cieca e sprovveduto.
Cieco io, ma muti i telefoni dei piani A, C e D. Rispondono i piani B ed E, ma se rimanevano muti pure quelli sarebbe stato meglio.
Non tace, invece, il mio telefono, quando mi chiama un amico, anche lui con la voglia di far danni, anche lui sul terreno di caccia.
Mi aggiro in una Bologna spoglia di molte vetrine, in parte vuota dei suoi suoni, e dove le strisce blu perdono le tipiche imprecazioni di chi cerca invano parcheggio, anzi, di solitudine implorano per essere occupate.
In questa città semideserta, quasi profeticamente, mi accompagnano le note sahariane di Bombino, un giovane Tuareg che suona la chitarra elettrica avvolto nei suoi colorati abiti berberi.
Ritrovo il mio amico, lui i danni li ha fatti, a me dei danni è rimasta la voglia.
Con il sorriso stampato sul volto, quel sorriso che noi punter conosciamo bene, esclama:
“Cosa dici se andiamo giù in riviera, dai ragazzi?”
“Sali!”
Ancora in viaggio, ancora a contare le strisce bianche dell’autostrada, che, al contrario delle pecorelle, mi tengono sveglio.
Una cena che è un incontro di mondi distanti ma vicini, come quelli emiliano e romagnolo, e come quelli di punter e pay. All’insegna del fatto che il rapporto umano è, in verità, il passaporto umano, il miglior lasciapassare per tutti i confini.
Ma ci sono ancora i danni, quelli non fatti, provo quindi ad esorcizzare la sventura bolognese del pomeriggio, ed il gatto nero che mi ha attraversato la strada pochi minuti prima, puntando su qualcosa di romagnolo (più o meno, forse un po' più ad est).
Qua non ho più voglia di andare a casaccio, non ci sono piani A, B o C, qua o c’è lei, o punto e basta.
Ma il vento che qui spira fresco e non troppo estivo, sembra essere girato. Risposta al primo colpo e l’appuntamento è fissato.
Passeggio con macedonia cimmata al gelato, poi, casualmente, svanisco nel nulla.
Il vento sembra esser girato, sempre fresco, ma nuovamente in nero, perché allo scoccare della fatidica ora il suo telefono non dà segni di vita.
24 volte riprovo a chiamarla. Non squilla a vuoto, semplicemente non connette proprio la chiamata, in perfetto silenzio.
Così come vengono ridotti a silenzio i miei rumorosi improperi, sommersi dal fracasso della movida.
Grazie ad uno stratagemma (e ad una botta di culo) riesco a riprendere contatto.
Ovviamente sotto il portone le connessioni son saltate di nuovo, ma si rimedia alla vecchia maniera: quattro colpi di nocca sulla porta e si aspetta, la tradizione vince sulla tecnologia.
Non è lei, non è quella delle foto, in gergo, è un fake, ma lo sapevo.
Magrissima, slanciata, in abito più casereccio che stilistico.
Il piccolo viso è un concentrato di malinconia e forza, in cui i suoi due occhi acquamarina appaiono un po’ stanchi, ma rimangono inesorabilmente la sua porta delle emozioni verso l’esterno.
La conversazione versa in lingua straniera, ma lingua che mi è congeniale, quindi ho molti meno problemi che con l’italiano stentato di tante altre.
Parla molto bene l'idioma, ma non c’è troppo bisogno di parole, si esprime molto meglio con le sensazioni
È un fake, non è lei, non è quella delle foto.
È un doppio fake, non è lei, non è nemmeno quella a cui ho telefonato prima.
Meno per meno fa più. In questa somma di falsità ho forse trovato la verità, ho incontrato la figura che si cela dietro ad ogni meretrice, che solitamente, negli incontri, rappresenta poco più di una comparsa.
Non ho trovato quella delle foto e, probabilmente, ho visto solo per un attimo la pay, ma son finito a far l’amore con la vera lei.
Tonnellate di passione in un corpo che non arriva a cinquanta chili.
Quintali di immagini, in una semplice mezz’ora, che forse si aprono e si chiudono con quella porta bianca, o forse nei portali della memoria resteranno aperti a lungo.
Gli amici forse hanno vagato, ma li ritrovo esattamente dove li avevo lasciati.
La macchina riparte e fila quasi da sola. Oggi avrò fatto almeno 524 chilometri, o molti di più.
5.24. Batto le palpebre e sono sempre davanti al casello dell’autostrada, probabilmente ancor più rincoglionito, perché in pochi istanti devo aver sognato tutto questo marasma.
Però la fastidiosa palla arancio, ora fa capolino davanti ai miei occhi, giusto un centimetro sopra il cruscotto, ed il datario del mio fedele compagno di viaggio a tre lancette, segna un giorno in più.
Sono sempre qui, nello stesso punto, ma sono passate esattamente 24 ore.
24 ore molto intense.
Nulla di ció é realtà. Trattasi di opera pseudoletteraria, delirio o illusione.
Devo fare un bel viaggetto, per accompagnare un amico a prendere un aereo, ma forse, l’unica cosa che vola è la mia mente.
Vedo strade, quasi buie, che rapidamente prendono luce.
Una confortevole oscurità, che in breve tempo si tramuta in una fastidiosa palla arancio, abbastanza scaltra da mirare dritto sui miei retrovisori
Vado e torno, maledicendo il vicino che mi ha rubato il parcheggio per pulire i vetri della macchina.
“Ma questa gente non ha voglia di dormire quando è in ferie?”
Mi rimetto a letto, frastornato, provando a recuperare un po’ del sonno perduto.
Qualche ora, finché la fame non prende il sopravvento, faccio un’improbabile colazione a base di tortelloni alle erbe e quant’altro.
Mi vedo rassettare la casa dai rimasugli della cena tra amici della sera prima.
Poi è qualcos’altro a prendere il sopravvento.
La mia consueta voglia di combinar dei danni.
Mi metto in andamento, determinato, quanto alla cieca e sprovveduto.
Cieco io, ma muti i telefoni dei piani A, C e D. Rispondono i piani B ed E, ma se rimanevano muti pure quelli sarebbe stato meglio.
Non tace, invece, il mio telefono, quando mi chiama un amico, anche lui con la voglia di far danni, anche lui sul terreno di caccia.
Mi aggiro in una Bologna spoglia di molte vetrine, in parte vuota dei suoi suoni, e dove le strisce blu perdono le tipiche imprecazioni di chi cerca invano parcheggio, anzi, di solitudine implorano per essere occupate.
In questa città semideserta, quasi profeticamente, mi accompagnano le note sahariane di Bombino, un giovane Tuareg che suona la chitarra elettrica avvolto nei suoi colorati abiti berberi.
Ritrovo il mio amico, lui i danni li ha fatti, a me dei danni è rimasta la voglia.
Con il sorriso stampato sul volto, quel sorriso che noi punter conosciamo bene, esclama:
“Cosa dici se andiamo giù in riviera, dai ragazzi?”
“Sali!”
Ancora in viaggio, ancora a contare le strisce bianche dell’autostrada, che, al contrario delle pecorelle, mi tengono sveglio.
Una cena che è un incontro di mondi distanti ma vicini, come quelli emiliano e romagnolo, e come quelli di punter e pay. All’insegna del fatto che il rapporto umano è, in verità, il passaporto umano, il miglior lasciapassare per tutti i confini.
Ma ci sono ancora i danni, quelli non fatti, provo quindi ad esorcizzare la sventura bolognese del pomeriggio, ed il gatto nero che mi ha attraversato la strada pochi minuti prima, puntando su qualcosa di romagnolo (più o meno, forse un po' più ad est).
Qua non ho più voglia di andare a casaccio, non ci sono piani A, B o C, qua o c’è lei, o punto e basta.
Ma il vento che qui spira fresco e non troppo estivo, sembra essere girato. Risposta al primo colpo e l’appuntamento è fissato.
Passeggio con macedonia cimmata al gelato, poi, casualmente, svanisco nel nulla.
Il vento sembra esser girato, sempre fresco, ma nuovamente in nero, perché allo scoccare della fatidica ora il suo telefono non dà segni di vita.
24 volte riprovo a chiamarla. Non squilla a vuoto, semplicemente non connette proprio la chiamata, in perfetto silenzio.
Così come vengono ridotti a silenzio i miei rumorosi improperi, sommersi dal fracasso della movida.
Grazie ad uno stratagemma (e ad una botta di culo) riesco a riprendere contatto.
Ovviamente sotto il portone le connessioni son saltate di nuovo, ma si rimedia alla vecchia maniera: quattro colpi di nocca sulla porta e si aspetta, la tradizione vince sulla tecnologia.
Non è lei, non è quella delle foto, in gergo, è un fake, ma lo sapevo.
Magrissima, slanciata, in abito più casereccio che stilistico.
Il piccolo viso è un concentrato di malinconia e forza, in cui i suoi due occhi acquamarina appaiono un po’ stanchi, ma rimangono inesorabilmente la sua porta delle emozioni verso l’esterno.
La conversazione versa in lingua straniera, ma lingua che mi è congeniale, quindi ho molti meno problemi che con l’italiano stentato di tante altre.
Parla molto bene l'idioma, ma non c’è troppo bisogno di parole, si esprime molto meglio con le sensazioni
È un fake, non è lei, non è quella delle foto.
È un doppio fake, non è lei, non è nemmeno quella a cui ho telefonato prima.
Meno per meno fa più. In questa somma di falsità ho forse trovato la verità, ho incontrato la figura che si cela dietro ad ogni meretrice, che solitamente, negli incontri, rappresenta poco più di una comparsa.
Non ho trovato quella delle foto e, probabilmente, ho visto solo per un attimo la pay, ma son finito a far l’amore con la vera lei.
Tonnellate di passione in un corpo che non arriva a cinquanta chili.
Quintali di immagini, in una semplice mezz’ora, che forse si aprono e si chiudono con quella porta bianca, o forse nei portali della memoria resteranno aperti a lungo.
Gli amici forse hanno vagato, ma li ritrovo esattamente dove li avevo lasciati.
La macchina riparte e fila quasi da sola. Oggi avrò fatto almeno 524 chilometri, o molti di più.
5.24. Batto le palpebre e sono sempre davanti al casello dell’autostrada, probabilmente ancor più rincoglionito, perché in pochi istanti devo aver sognato tutto questo marasma.
Però la fastidiosa palla arancio, ora fa capolino davanti ai miei occhi, giusto un centimetro sopra il cruscotto, ed il datario del mio fedele compagno di viaggio a tre lancette, segna un giorno in più.
Sono sempre qui, nello stesso punto, ma sono passate esattamente 24 ore.
24 ore molto intense.
Nulla di ció é realtà. Trattasi di opera pseudoletteraria, delirio o illusione.
