“La bella gente” è un film italiano, girato invero qualche anno fa, ma mai distribuito e approdato solo in questi giorni nelle sale, che ha come protagonista una prostituta di strada diurna di origine ucraina. La sua intenzione di offrire una rappresentazione, drammatica e senza lieto fine, di situazioni familiari a molti di noi merita a mio avviso una presentazione in questo nostro spazio di discussione.
La narrazione nel suo complesso è inficiata da un nucleo fragile, un avvio, cioè, molto poco plausibile: una signora di mezza età (Susanna), che lavora in un centro d’assistenza alle donne vittime di violenza, resta profondamente turbata dalla visione, alle porte di Roma, di una giovanissima prostituta, Nadia, maltrattata dal pappone. Insieme al marito, allora, la rapisce (!) e la custodisce nella villetta delle loro vacanze prospettandole un’altra vita, un altro lavoro ecc. Insomma, un’operatrice sociale, che si presume conosca bene il quadro di regole e possibilità concrete nel quale svolge la sua attività, fa una pazzia del genere? E al pappone violento sottraggono la fonte dei suoi redditi e lui si rassegna così (e sparisce innocuo dalla storia)?! Verosimiglianza veramente scarsa!
Sono efficaci invece alcuni spunti propriamente iconografici. Il luogo in cui Nadia attende i clienti, quegli angoli fra statali e sterrate di cui ho pieni gli occhi, con la sedia, l’ombrello a terra, la bottiglina d’acqua, l’immondezzaio di fazzolettini e preservativi del luogo in cui si apparta, gli abitini da lavoro. Molto insistita è la sottolineatura del degrado e del disgustato rifiuto da parte della giovane, affidato ad atti di repulsione, come il vomito e lo sputo, al mutismo da cui esce solo nel contatto con la famiglia benefattrice-rapitrice. Certe inquadrature molto plastiche forse citano, o perlomeno ricordano a me, una precedente icona della desolazione femminile sulla strada (anche se una strada diversamente intesa): quella de “La ciociara”.
Altrettanto incisivi sono alcuni simboli della trasformazione dei protagonisti. Il bagno-lavacro che restituisce a Nadia la sfera della sua intimità. Il lavaggio della sua auto da fighetto dalla polvere della camporella con Nadia, autolavaggio della coscienza dopo il quale il figlio della coppia (Giulio) torna alla normalità della sua isterizzata, ma assolutamente perbene, storia d’amore con una pariolina. Altri si concentrano nel finale e non li svelo.
Il film ha soprattutto il merito di scavare in modo severo nelle ipocrisie moralistiche di vario tipo e nelle crepe dell’amore borghese. Una coppia di democratici che ricordano le lotte studentesche e sanno tutto di vini, il figlio egoista e superficiale che studia a Londra, la fidanzata narcisista e viziata di questi (Flaminia), un’altra coppia invece di diverso orientamento politico che pensa solo a far soldi. E di tutti affiorano velleitarismi, cinismi, grettezze e autodifese di fronte al fascino potente e ambiguo della prostituta, con cui i tre maschi cercano un’interazione più o meno diretta.
Notevole poi è la variegata sfumatura del sospetto e del vero e proprio odio femminile che emerge per la prostituta, al contempo bolla di gelosia e rituale di costruzione della propria “rispettabilità”, un tema che passa completamente sotto silenzio nei discorsi comuni sull’argomento ed invece è a mio avviso un fenomeno di grande rilevanza sociale e psicologica.
Meno profonda è l’esplorazione della biografia e del mondo interiore di Nadia, sigillati nella narrazione dalla reticenza attribuita all’interessata. Come c’era da aspettarsi, il film ne fa la figura migliore. A questo fine, però, inevitabilmente la appiattisce sullo stereotipo vittimistico e non prova a complicare, come avviene con gli altri personaggi, il suo profilo. La possibilità della “scelta” è esclusa esplicitamente, mentre sappiamo dalla più recente sociologia del fenomeno mercenario che esiste un larghissimo spazio, in cui possono combinarsi costrizioni, condizionamenti (che non sono la stessa cosa), consapevolezze, spregiudicatezza delle ragazze stesse, reti di amiche, cugine ecc., che pure una rappresentazione artistica coraggiosa dovrebbe saper mettere in scena oltre i luoghi comuni. Un’ombra, quando lasciata sola Nadia esplora i cassetti della famiglia dei suoi ospiti, non altera nella sostanza la troppo facile distribuzione dei ruoli della buona e dei cattivi.
Ancora più logora è la visione della clientela della strada, che vede l’immaginazione degli autori lasciarsi imprigionare dal conformismo che vorrebbero criticare. In sostanza la sintetizza il ribrezzo di Susanna per la vita di Nadia, per “tutte quelle mani addosso degli uomini che la scopano tutti i giorni”. Orrore! Sulla scena passa un solo amplesso mercenario, su una Panda scassata, con un selvaggio che non le rivolge una parola. Poi, in una sorta di allucinazione, un intero paese di vecchi e bruti sembra trasfigurarsi nel deforme profilo di un cliente collettivo. Che dire invece di quelli che ci vanno con le macchine sportive, che mandano SMS d’amore, che le riempiono di regali, che portano le rose? E al di là di alcuni parossismi sentimentalistici, che però significativamente occupano pagine e pagine di questo forum, delle risate e gli scazzi, dei commenti sulla musica dell’autoradio e i silenzi, delle fregature subite da noi clienti e i momenti di complicità erotica… Insomma tutto uno spessore relazionale alquanto più contorto e più profondo di così, che evidentemente deve aspettare un altro film.
La narrazione nel suo complesso è inficiata da un nucleo fragile, un avvio, cioè, molto poco plausibile: una signora di mezza età (Susanna), che lavora in un centro d’assistenza alle donne vittime di violenza, resta profondamente turbata dalla visione, alle porte di Roma, di una giovanissima prostituta, Nadia, maltrattata dal pappone. Insieme al marito, allora, la rapisce (!) e la custodisce nella villetta delle loro vacanze prospettandole un’altra vita, un altro lavoro ecc. Insomma, un’operatrice sociale, che si presume conosca bene il quadro di regole e possibilità concrete nel quale svolge la sua attività, fa una pazzia del genere? E al pappone violento sottraggono la fonte dei suoi redditi e lui si rassegna così (e sparisce innocuo dalla storia)?! Verosimiglianza veramente scarsa!
Sono efficaci invece alcuni spunti propriamente iconografici. Il luogo in cui Nadia attende i clienti, quegli angoli fra statali e sterrate di cui ho pieni gli occhi, con la sedia, l’ombrello a terra, la bottiglina d’acqua, l’immondezzaio di fazzolettini e preservativi del luogo in cui si apparta, gli abitini da lavoro. Molto insistita è la sottolineatura del degrado e del disgustato rifiuto da parte della giovane, affidato ad atti di repulsione, come il vomito e lo sputo, al mutismo da cui esce solo nel contatto con la famiglia benefattrice-rapitrice. Certe inquadrature molto plastiche forse citano, o perlomeno ricordano a me, una precedente icona della desolazione femminile sulla strada (anche se una strada diversamente intesa): quella de “La ciociara”.
Altrettanto incisivi sono alcuni simboli della trasformazione dei protagonisti. Il bagno-lavacro che restituisce a Nadia la sfera della sua intimità. Il lavaggio della sua auto da fighetto dalla polvere della camporella con Nadia, autolavaggio della coscienza dopo il quale il figlio della coppia (Giulio) torna alla normalità della sua isterizzata, ma assolutamente perbene, storia d’amore con una pariolina. Altri si concentrano nel finale e non li svelo.
Il film ha soprattutto il merito di scavare in modo severo nelle ipocrisie moralistiche di vario tipo e nelle crepe dell’amore borghese. Una coppia di democratici che ricordano le lotte studentesche e sanno tutto di vini, il figlio egoista e superficiale che studia a Londra, la fidanzata narcisista e viziata di questi (Flaminia), un’altra coppia invece di diverso orientamento politico che pensa solo a far soldi. E di tutti affiorano velleitarismi, cinismi, grettezze e autodifese di fronte al fascino potente e ambiguo della prostituta, con cui i tre maschi cercano un’interazione più o meno diretta.
Notevole poi è la variegata sfumatura del sospetto e del vero e proprio odio femminile che emerge per la prostituta, al contempo bolla di gelosia e rituale di costruzione della propria “rispettabilità”, un tema che passa completamente sotto silenzio nei discorsi comuni sull’argomento ed invece è a mio avviso un fenomeno di grande rilevanza sociale e psicologica.
Meno profonda è l’esplorazione della biografia e del mondo interiore di Nadia, sigillati nella narrazione dalla reticenza attribuita all’interessata. Come c’era da aspettarsi, il film ne fa la figura migliore. A questo fine, però, inevitabilmente la appiattisce sullo stereotipo vittimistico e non prova a complicare, come avviene con gli altri personaggi, il suo profilo. La possibilità della “scelta” è esclusa esplicitamente, mentre sappiamo dalla più recente sociologia del fenomeno mercenario che esiste un larghissimo spazio, in cui possono combinarsi costrizioni, condizionamenti (che non sono la stessa cosa), consapevolezze, spregiudicatezza delle ragazze stesse, reti di amiche, cugine ecc., che pure una rappresentazione artistica coraggiosa dovrebbe saper mettere in scena oltre i luoghi comuni. Un’ombra, quando lasciata sola Nadia esplora i cassetti della famiglia dei suoi ospiti, non altera nella sostanza la troppo facile distribuzione dei ruoli della buona e dei cattivi.
Ancora più logora è la visione della clientela della strada, che vede l’immaginazione degli autori lasciarsi imprigionare dal conformismo che vorrebbero criticare. In sostanza la sintetizza il ribrezzo di Susanna per la vita di Nadia, per “tutte quelle mani addosso degli uomini che la scopano tutti i giorni”. Orrore! Sulla scena passa un solo amplesso mercenario, su una Panda scassata, con un selvaggio che non le rivolge una parola. Poi, in una sorta di allucinazione, un intero paese di vecchi e bruti sembra trasfigurarsi nel deforme profilo di un cliente collettivo. Che dire invece di quelli che ci vanno con le macchine sportive, che mandano SMS d’amore, che le riempiono di regali, che portano le rose? E al di là di alcuni parossismi sentimentalistici, che però significativamente occupano pagine e pagine di questo forum, delle risate e gli scazzi, dei commenti sulla musica dell’autoradio e i silenzi, delle fregature subite da noi clienti e i momenti di complicità erotica… Insomma tutto uno spessore relazionale alquanto più contorto e più profondo di così, che evidentemente deve aspettare un altro film.
