Dal Secolo xix, 18 febbraio, 2021
. . . . . "Genova, il Covid svuota i bassi delle prostitute: “Aiutateci a lasciare la strada”
Genova – Nell’anno del Covid che ha fermato gli spostamenti internazionali, centinaia di donne sudamericane si sono fermate a Genova col visto turistico in tasca. Un documento usato come passaporto per il lavoro di strada che non si è mai fermato, nemmeno nei giorni più duri del lockdown malgrado le paure e il diradarsi dei clienti. «

ài, vieni che lo facciamo tenendo tutti e due la mascherina», dice una giunonica venezuelana a chi passa in vico Spinola all’ora di colazione. In apparenza non è cambiato nulla nei vicoli tra lo splendore di via Garibaldi e il degrado di Prè, ma basta grattare sotto la superficie per capire che non è così. E il primo indizio sono tre cartelli “vendesi” in vico del Duca, la strada a massima concentrazione di sex workers di fronte a Palazzo Tursi.
Oggi, a tratteggiare la fotografia più dettagliata del fenomeno della prostituzione nella città vecchia tra il primo lockdown e i mesi appena trascorsi, è un dossier delle unità di strada di Afet Aquilone e Comunità San Benedetto, all’interno del progetto Hope contro la tratta degli esseri umani.
L’enclave delle lucciole latine
Nel corso del periodo preso in considerazione, tra marzo 2019 e maggio 2020, gli operatori hanno incontrato 399 donne, di queste più di sei su 10 (in tutto 329) provenienti dall’America latina, 31 italiane, 24 nigeriane, 9 nordafricane e 6 dell’Europa dell’Est. Il dossier si sofferma sulle latino americane. Non si parla di ecuadoriane, la comunità più integrata. «La maggioranza provengono dalla Colombia, fenomeno migratorio presente da quasi trent’anni, da Cali e da Puerto Tejada», recita lo studio. Seguono Repubblica Dominicana e immigrazione dal Venezuela «fenomeno recente successivo al colpo di Stato del maggio 2019».
In concomitanza della crisi a Caracas sono arrivate a Genova una decina di giovani «tra i 25 e i 35 anni, quasi tutte madri», annotano i curatori, che aggiungono dettagli. La totalità delle donne venezuelane risulta non in regola, e con un visto per turismo scaduto. Gli operatori le conoscono una ad una ma fanno notare che è facile distinguere chi è in regola e chi no, molto semplicemente, osservando le reazioni al passare delle pattuglie: all’apparire delle divise c’è chi sparisce e chi resta tranquillamente in strada.
Solo tra via Garibaldi e via del Campo, a due passi da Palazzo Tursi, si alternano «anche un centinaio di donne che si prostituiscono in un solo giorno». Il primo elemento che colpisce: sul lavoro le sex workers latinoamericane del centro storico non mostrano di essere in competizione ma semmai sembrano ingranaggi di una sola struttura organizzata.
Le anziane non si comportano come le madame nigeriane, ex schiave del sesso che hanno pagato il debito contratto per venire in Italia e, a loro volta, schiavizzare le ultime arrivate. Ma la presenza di gerarchie è evidente da tanti dettagli colti dagli operatori. «Abbiamo assistito a una scena interessante – scrivono – un ragazzo con palesi problemi psichici si è avvicinato a una di loro per chiedere una prestazione... Una delle più mature ha chiamato una delle giovani dicendo che si sarebbe dovuta occupare del ragazzo: l’ordine è stato eseguito senza fiatare».
Oggi, le cosiddette anziane sono anche quelle che danno consigli sulle attenzioni da tenere per il Covid e invitano a fare il tampone, o almeno a dire ai clienti di essere certificate Covid free. Le giovanissime le chiamano “zie”, sono quelle che hanno più conoscenze e magari subaffittano i locali alle connazionali. Considerano i diritti acquisiti come parte di un passaggio generazionale e – annota un operatore – «una sorta di pensione».