Lo trovi per caso in quel serbatoio infinito che è internet. Ci clicchi col mouse. La prima volta non ti fa effetto. Poi lo ascolti una seconda volta, e già ti lascia qualcosa dentro. Poi una terza, una quarta. Eppure.... Lo riascolti. Quattro minuti in tutto. Prima senti arrivare da lontano la voce di un vecchietto, ma quei vecchietti che stanno in piedi per miracolo. Canta, il vecchietto, con una voce piccola, sottovoce, intonato però, e dolce, in qualche modo, fanno tenerezza quelle note in alto, uncinate per un pelo, e tremolanti. Ci senti tutti i denti che non ha più, il fiato corto, e l'artrite e tutto il resto. Non c'è altro: solo la sua voce, che canta senza mai smettere lo stesso ritornello un po' malinconico. Niente accompagnamento. Qualche rumore di fondo, voci lontane. Delle parole non capisci niente. E non solo perchè è inglese. Senza dentiera, con tutti quegli anni, le parole diventano fantasmi. Suoni. Ma che razza di disco è mai, ti chiedi. E' un disco che ha venduto milioni di copie. E che ha una storia strana. Nel 1971, un musicista che si chiama Gavin Bryars si mette a registrare, per la colonna sonora di un documentario, le voci dei barboni che vivono alla Waterloo Station di Londra. Registra di tutto. Poi un giorno incontra quel vecchietto. Barbone anche lui. Lo sente cantare. Registra e porta a casa. Risente. Rimane come ipnotizzato. Scopre che quel ritornello viene da una canzone religiosa (Jesus' blood never failed me yet), e scopre che è fatto ad anello: lo puoi ripetere all'infinito, è come una nenia interminabile. Ci lavora su per anni. fa un primo disco che diventa un cult fra i pochi intimi che lo sentono, poi riprende a lavorarci, e dopo vent'anni se ne esce con questo cd: 75 minuti, la voce del barbone che canta ininterrottamente i 25 secondi del suo ritornello. Che idiozia, pensi. Ma è perché non lo hai ancora ascoltato... Dopo un paio di minuti senti arrivare, alle spalle del vecchietto, un'orchestra d'archi, da lontano, a poco a poco, che si carica sulla sua voce, la avvolge in una coperta, per così dire, e se la porta in giro. La voce è sempre quella, ma incomincia a suonare diversa. Si scalda, poco, quasi non te ne accorgi, arrivano delle arpe e poi delle campane, e un coro, e delle percussioni, e poi un flauto, due clarinetti, un oboe, e le trombe, e perfino un organo, e una specie di gong e chissà cos'altro. La vocina del barbone continua a cucire il suo ritornello, minuscola e fragile, ma non è ancora finita. A un certo punto, si fa largo un'altra voce, sembra sparata in un megafono, poi si avvicina e allora la riconosci, sarebbe impossibile non riconoscerla: Tom Waits. E chi, se non lui? Tom Waits - lo dico ai pochi che non lo conoscono - è uno che canta e nella sua voce ci sono le voci di tutti i barboni ubriaconi del mondo. Non è una voce, è una discarica pubblica, è una sigaretta lunga anni, è milioni di birre e chilometri, e centinaia di amori e motel. E' una delle voci più emozionanti che vi può capitare di ascoltare. E adesso arriva lì in mezzo, a duettare con quel barbone che nel frattempo è morto, ma non importa, la sua voce non si è mai più fermata, tutti e due a dondolare su quel ritornello eterno, e inarrestabile. Tom Waits. E il vecchio barbone. Figli di un dio ubriaco. Sembra che non abbiano fatto nient'altro tutta la vita. Solo cantare insieme, tutto il tempo. E scolare birre, naturalmente. Finisce che a poco a poco la processione si allontana, come è venuta adesso se ne va, si lascia dietro un po' di violini impiccati su note altissime, e brandelli di Tom Waits che sparacchiano note come sberleffi al mondo. Il barbone se n'è già sparito. E tu lì a chiederti: chissà come si chiamava. E quando è morto, e come, e dove. E se ne sapeva altre, di canzoni così.
* per chi volesse ascoltarla, ecco il link: http://www.youtube.com/watc…
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