Nuovo Autore, prolifico e promettente, proveniente dalla terra dei Mandrogni (Alessandria),
Signore e Signori, Mr. Saintsaens...!!
HARD(?)BOILED - L'avete voluto voi! (uscito a dispense e qui rilegato integralmente)
Era una notte fredda e nebbiosa – di nuovo; ed io stavo bestemmiando l’inverno mandrogno – di nuovo. Mai una soddisfazione da quei sei numeretti maledetti. Mai un volo di sola andata per la Polinesia.
Gettai il cappotto sul divano e mi accesi una sigaretta. Quella deliziosa gattina della mia segretaria mi stava fissando con quei suoi fanaloni verdi. Dio, che occhi. E che gambe. E che sedere.
“Abbiamo un cliente, capo. Un pezzo grosso”.
“Oh, che gioia”, risposi sbuffando il fumo. &ldquoi che si tratta?”
Lei si schiarì la gola. Quella sua voce bassa e roca mi dava i brividi, e lei lo sapeva.
“Un tizio che si fa chiamare Cunnikiller. Ha dei problemi in città, e gli serve qualcuno che glieli risolva. Sai, è di fuori, della metropoli… la bèla Turin”.
“Ellis, tesoro, se io fossi bulgara ci andrei piano col dialetto piemontese”.
“E io, tesoro, se avessi tutti i tuoi debiti sarei un po’ meno selettiva coi clienti”.
“Touchè. Prenderò il lavoro. Qualche dettaglio?”
Lei passò le dita affusolate sul tablet: “Pare che gli abbiano rifilato un pacco – un falso d’autore. Lui giustamente si è innervosito, ed ora vuole andare a fondo alla cosa… e pare che il pacco arrivi da Lisòndria” – si direbbe che la gattina bulgara si divertisse a provocarmi.
“Un falso? Beh, a questo punto credo che dovremo chiedere una consulenza a Caballero”.
Ellis sorrise beffarda: “Heh. Che nomignolo assurdo”.
Io la guardai male: “Sarà, ma è il più abile esperto di falsi che io conosca: per quanto mi riguarda potrebbe anche girare in monopattino. E comunque, se l’avessi visto impennare quel coso fino in quarta come l’ho visto io, faresti meno la spiritosa”.
Lei fece finta di niente, continuando a scorrere i documenti digitali sul tablet. A un certo punto si fermò interessata: “Ma guarda un po’ che cosa abbiamo qui…”
La guardai con aria interrogativa, e lei sorrise – di nuovo: “Indovina chi ha fatto la consegna”.
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Conoscevo quel corriere. Era l’uomo da chiamare quando avevi un trasporto delicato e non volevi intoppi, lo sapevano tutti – e anch’io in passato me ne ero servito. Un tizio in gamba.
Faceva base alla Bisca del Maestro – un posto che sembrava uscito dritto dritto da un film di Bogart; e dove, per mia fortuna, avevo delle… entrature.
Arrivai al civico 75 e suonai. Anche se c’era la telecamera, il buttafuori aprì lo spioncino per dare un’occhiata – penso ancora oggi che fosse solo per mantenere l’atmosfera. Ad ogni modo, mi riconobbe e mi fece entrare.
Maria, la pupa del capo, se ne stava languidamente appollaiata su uno scranno, dietro al bancone dell’ingresso, e giocherellava con un orecchio del gattino che teneva in grembo. Era una biondina slanciata, lunare, di una bellezza intrigante. Mi tolsi il cappello e la salutai.
“Ti butta male, stasera. Il Maestro non c’è. E’ in giro a cercare nuove ballerine”.
Io ammiccai: “Una volta tanto non sono qui per lui. Ti secca se faccio un giro?”
Lei sollevò la mano dal gattino ad indicarmi la sala: “La sua casa è la tua casa, finché non combini guai. Capeesh?”
“Farò il bravo, croce sul cuore. Grazie, tesoro”.
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Ah, la Bisca. Quante storie, lì dentro. Se solo quei muri avessero potuto parlare…
Come al solito, c’erano un mucchio di facce conosciute, a partire da Frankie il Gigante, che si occupava della sicurezza in sala. Avevo visto il suo vecchio rottame arancione, la capottina tutta sdrucita, parcheggiato quasi di fronte all’ingresso – ma con quelle zappe che si trovava al posto delle mani nessuno sano di mente l’avrebbe mai preso in giro per la Ritmo. Non io, perlomeno.
Ma anche gli avventori si difendevano bene. La crème de la crème dei peggiori bar di Caracas – e non eravamo neanche in Venezuela. Di venezuelane invece eravamo pieni, ma questa è un’altra storia. Mentre davo un’occhiata in giro, mi accesi l’ennesima sigaretta.
Oh, ma guarda, c’è Stallo. Era uno scrittore apprezzato, soprattutto fantascienza, e pubblicava con uno pseudonimo americano. Ovvio, se vuoi un mercato nella letteratura di genere. Si osservava intorno e prendeva appunti, a volte sorridendo, altre aggrottando le ciglia. Ecco perché i suoi racconti erano così vivi: prendeva spunto dalla vita vera, anche se la trasportava nel 2369. Bella scelta di cifre, en passant.
In un tavolo centrale, il grande vecchio. Lo chiamavano Super Joe, perché ne sapeva una più del diavolo – e anche quella sera, infatti, teneva banco, tra un bicchiere e una mano di baccarat, coi suoi formidabili aneddoti di pistole, ricatti, sette segrete non così segrete e donnine allegre. E i suoi altrettanto allegri compari non erano da meno, a cominciare dai due esploratori Fernadello e Warrior, appena tornati dall’ennesima spedizione in lande sconosciute ma non certo vergini, per arrivare ad un celebre luminare, con ancora addosso il camice della Ubratta Corporation (e non sapete che fatica trattenere le battute sul virus T e gli zombi e i grossi fucili di Milla Jovovich), passando per un rinomato Talent scout, il castigamatti dei niubbi, ma se passi il suo esame sei a posto per la vita.
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E dietro il bancone c’era Ben. Cristo, quell’uomo di scotch ne sapeva più di me – e io, vi giuro, ne so un bel po’, perché ho spesso sete, e quando hai spesso sete due o tre cosine sui torbati le impari. Mi fece un cenno a chiedermi se volevo da bere – era l’unica maniera per comunicare a cinque metri di distanza, visto il casino. Io alzai tre dita in orizzontale, a significargli di non essere tirchio. Ben sorrise, e fu molto generoso. Avvicinatomi a prendere il mio scotch, gli chiesi anche un bicchiere di barolo. Avevo visto il mio uomo, e sapevo come ammorbidirlo.
Stava appoggiato ad una colonna, e guardava rapito lo spettacolino lesbo-incestuoso di due sorelline thai che si strusciavano lascive sul palco. Da dietro le quinte, Cochis, il loro scopritore, se le coccolava con gli occhi, e sapendo quali delizie le due gli riservavano su base regolare ne aveva tutte le ragioni. Miami, il suo delfino, secondo in comando del cartello thai, stava poco distante, conversando fitto fitto con un figuro decisamente losco, un picchiatore della mala la cui specialità era ben resa dal nomignolo che gli avevano affibbiato – Maxi Misura. Qualunque cosa accada, fate in modo di non trovarvi dalla parte sbagliata del suo randello.
Allungai il barolo al corriere. Lui lo accettò, guardandomi con aria sorniona.
“Strano vederti qui. Credevo che non scendessi mai dal tuo autotreno, Corriere”, gli dissi.
“Sempre in tir non è un luogo, è uno stato dell’anima, pivello”, rispose lui indicandosi il pacco. Il più maledetto caso di priapismo costante che avessi mai visto. Mi sentii un idiota a non aver capito da solo il doppio senso.
&ldquo’altronde” continuò il corriere, “neanche tu sei davvero un Santo, o sbaglio?”
Cercai di riguadagnare terreno: “Infatti: sono un musicista. Perlomeno ora ho la certezza che porti i boxer e non gli slip. Possiamo parlare?”
Lui indicò un tavolino, da dove comunque si poteva ancora godere lo spettacolo.
La mossa successiva toccava a me – e sarei andato dritto al punto.
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Dritto al punto… ma anche no, perché non feci in tempo ad aprire bocca che venni aggredito da una virago tettona coi capelli imbizzarriti di Medusa.
“Tu, Santo dei miei stivali! Stai lontano dal mio tesoruccio!”
“Chiedo scusa, madame... ci conosciamo?” – io ero perplesso; il Corriere sembrava divertito.
“Beh, io di certo ti conosco! Tu sei quel detective giuda traditore, che picchia le donne, drogato fino alle orecchie, pieno di gonorrea e di sifilide e di chissà cos’altro, scappato da casa e poi dal manicomio, posseduto dal demonio e controllato dagli alieni con le antenne di stagnola!”
La guardai da sotto in su cercando di rimanere serio: “Ok. Dimmi qualcosa che già non so”.
Lei riprese in quarta: “Beh, sai la biondina all’entrata? Lei ci limona, con quel gatto puzzolente! E hai presente la brasiliana ciucciona? Paga Maxi Misura perché vada a randellare la concorrenza. Per non parlare poi di…”
Per mia fortuna, il corriere la fermò quasi subito – cominciavo a temere che mi avrebbe cavato gli occhi: &ldquoai, Caterina, comportati bene. Non devi dire queste cose del mio amico, qua. E’ un po’ sgarrupato, è vero, ma l’è in brav fanciot”.
“No, aspetta”, dissi io; “c’è qualcosa di vero, in tutto questo?”
Lei sembrò calmarsi e mi sorrise, questa volta con dolcezza. Sembrava improvvisamente lucida.
“La verità è un insetto rosso che si riflette su un vetro viola”, sussurrò. Poi le cadde lo sguardo goloso sul priapico pacco del corriere; glielo stropicciò un pochino, gli fece un occhiolino lascivo, e finalmente ci lasciò ai nostri affari.
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Il corriere assaporò un sorso di vino.
“Allora, giovanotto, cosa posso fare per te?”
“Mi dicono che hai rifilato un pacco a uno di fuori. E mi pagano per vederci chiaro”.
Lui avvampò: “Stammi bene a sentire. Io faccio solo le consegne. Ritiro, sigillo, trasporto e consegno. Da quando prendo il carico a quando lo mollo, niente può toccarlo: i miei sistemi di sicurezza vengono direttamente dalla Ubratta Corporation!”.
Il tizio sembrava sincero, e la sua reputazione era cristallina. Se c’era un fregone, questo non era lui, e me lo dimostrò porgendomi una chiavetta USB: “Qua ci sono tutti i dati di viaggio”, sussurrò con aria complice: “Analizzali e vedrai che nessuno ha aperto il carico da quando l’ho ritirato a quando l’ho consegnato”.
Agguantai la chiavetta senza farmelo ripetere: “Puoi scommetterci. Che c’era nel pacco?”
“Prima regola del fight club: non si parla del fight club. Io non faccio domande”.
“E il mittente?”
Il corriere mi guardò un po’ torvo, poi decise di fidarsi – in fondo ne andava anche della sua reputazione, e aveva tutto l’interesse a che il caso fosse risolto.
“Solo una sigla”, disse sottovoce: “VCeNO”.
Conoscevo quel nome. Ufficialmente, si occupava di import-export. In realtà, era un trafficante d’arte specializzato in oggetti dall’estremo Oriente. Il migliore.
La faccenda si era appena fatta molto, molto interessante.
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Ellis estrasse la chiavetta: “Tutto a posto. Il corriere ha detto la verità: nessuna manomissione. Ciò che ha consegnato è ciò che ha ritirato”.
Bene, pensai; non è sul viaggio che devo indagare. E neanche sul mio cliente: avevo preso informazioni, e la magione di Cunnikiller era inespugnabile – impossibile che il pacco fosse stato sostituito a casa sua. Il torinese si era anche dimostrato piuttosto disponibile nel dettagliare cosa fosse l’oggetto in questione, e quando me lo disse sbiancai.
Eh sì, perché si trattava del Dildo di Giada dell’Imperatrice Aima (non chiedetemi il periodo, la dinastia o qualunque altra cosa usino i cinesi per contare le fasi dell’Impero: è già tanto se so che noi avevamo i Savoia). Quello che sapevo è che era un oggetto leggendario, che l’Imperatrice usava per trastullarsi quando l’Imperatore viaggiava per le province più lontane dalla Città Proibita e neanche i suoi numerosissimi amanti le bastavano più. Una vera donna-drago, l’Imperatrice.
Il Dildo era ricomparso qualche anno prima, quando qualche burocrate cinese si era reso conto che poteva farci dei bei soldi. In quanti passaggi fosse arrivato a VCeNO non saprei dirlo, ma ero certo che nel passaggio successivo il trafficante si fosse ritagliato un bel margine.
Escluso Cunnikiller, dunque, ed escluso Sempre In Tir. Ed escluso anche VCeNO: nel suo lavoro la reputazione era tutto, e lui era troppo sveglio per rovinarsela rifilando un falso ad un cliente importante – sicuramente il dildo che era uscito dal suo caveau era quello vero. Questo lasciava una sola possibilità: che il falsario l’avesse sostituito tra il momento in cui era arrivato al deposito alessandrino di VCeNO e l’istante in cui il Corriere l’aveva preso in consegna. E infatti tra quei due momenti erano passate sei ore.
Poi, la consapevolezza mi colpì con la forza del randello di Maxi, delle zappe di Frankie e dell’autotreno di Tir – tutti insieme.
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