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calacausi
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Nuovo Autore, prolifico e promettente, proveniente dalla terra dei Mandrogni (Alessandria),
Signore e Signori, Mr. Saintsaens...!!




HARD(?)BOILED - L'avete voluto voi!  (uscito a dispense e qui rilegato integralmente)

Era una notte fredda e nebbiosa – di nuovo; ed io stavo bestemmiando l’inverno mandrogno – di nuovo. Mai una soddisfazione da quei sei numeretti maledetti. Mai un volo di sola andata per la Polinesia.
Gettai il cappotto sul divano e mi accesi una sigaretta. Quella deliziosa gattina della mia segretaria mi stava fissando con quei suoi fanaloni verdi. Dio, che occhi. E che gambe. E che sedere.
“Abbiamo un cliente, capo. Un pezzo grosso”.
“Oh, che gioia”, risposi sbuffando il fumo. &ldquoi che si tratta?”
Lei si schiarì la gola. Quella sua voce bassa e roca mi dava i brividi, e lei lo sapeva.
“Un tizio che si fa chiamare Cunnikiller. Ha dei problemi in città, e gli serve qualcuno che glieli risolva. Sai, è di fuori, della metropoli… la bèla Turin”.
“Ellis, tesoro, se io fossi bulgara ci andrei piano col dialetto piemontese”.
“E io, tesoro, se avessi tutti i tuoi debiti sarei un po’ meno selettiva coi clienti”.
“Touchè. Prenderò il lavoro. Qualche dettaglio?”
Lei passò le dita affusolate sul tablet: “Pare che gli abbiano rifilato un pacco – un falso d’autore. Lui giustamente si è innervosito, ed ora vuole andare a fondo alla cosa… e pare che il pacco arrivi da Lisòndria” – si direbbe che la gattina bulgara si divertisse a provocarmi.
“Un falso? Beh, a questo punto credo che dovremo chiedere una consulenza a Caballero”.
Ellis sorrise beffarda: “Heh. Che nomignolo assurdo”.
Io la guardai male: “Sarà, ma è il più abile esperto di falsi che io conosca: per quanto mi riguarda potrebbe anche girare in monopattino. E comunque, se l’avessi visto impennare quel coso fino in quarta come l’ho visto io, faresti meno la spiritosa”.
Lei fece finta di niente, continuando a scorrere i documenti digitali sul tablet. A un certo punto si fermò interessata: “Ma guarda un po’ che cosa abbiamo qui…”
La guardai con aria interrogativa, e lei sorrise – di nuovo: “Indovina chi ha fatto la consegna”.

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Conoscevo quel corriere. Era l’uomo da chiamare quando avevi un trasporto delicato e non volevi intoppi, lo sapevano tutti – e anch’io in passato me ne ero servito. Un tizio in gamba.
Faceva base alla Bisca del Maestro – un posto che sembrava uscito dritto dritto da un film di Bogart; e dove, per mia fortuna, avevo delle… entrature.
Arrivai al civico 75 e suonai. Anche se c’era la telecamera, il buttafuori aprì lo spioncino per dare un’occhiata – penso ancora oggi che fosse solo per mantenere l’atmosfera. Ad ogni modo, mi riconobbe e mi fece entrare.
Maria, la pupa del capo, se ne stava languidamente appollaiata su uno scranno, dietro al bancone dell’ingresso, e giocherellava con un orecchio del gattino che teneva in grembo. Era una biondina slanciata, lunare, di una bellezza intrigante. Mi tolsi il cappello e la salutai.
“Ti butta male, stasera. Il Maestro non c’è. E’ in giro a cercare nuove ballerine”.
Io ammiccai: “Una volta tanto non sono qui per lui. Ti secca se faccio un giro?”
Lei sollevò la mano dal gattino ad indicarmi la sala: “La sua casa è la tua casa, finché non combini guai. Capeesh?”
“Farò il bravo, croce sul cuore. Grazie, tesoro”.

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Ah, la Bisca. Quante storie, lì dentro. Se solo quei muri avessero potuto parlare…
Come al solito, c’erano un mucchio di facce conosciute, a partire da Frankie il Gigante, che si occupava della sicurezza in sala. Avevo visto il suo vecchio rottame arancione, la capottina tutta sdrucita, parcheggiato quasi di fronte all’ingresso – ma con quelle zappe che si trovava al posto delle mani nessuno sano di mente l’avrebbe mai preso in giro per la Ritmo. Non io, perlomeno.
Ma anche gli avventori si difendevano bene. La crème de la crème dei peggiori bar di Caracas – e non eravamo neanche in Venezuela. Di venezuelane invece eravamo pieni, ma questa è un’altra storia. Mentre davo un’occhiata in giro, mi accesi l’ennesima sigaretta.
Oh, ma guarda, c’è Stallo. Era uno scrittore apprezzato, soprattutto fantascienza, e pubblicava con uno pseudonimo americano. Ovvio, se vuoi un mercato nella letteratura di genere. Si osservava intorno e prendeva appunti, a volte sorridendo, altre aggrottando le ciglia. Ecco perché i suoi racconti erano così vivi: prendeva spunto dalla vita vera, anche se la trasportava nel 2369. Bella scelta di cifre, en passant.
In un tavolo centrale, il grande vecchio. Lo chiamavano Super Joe, perché ne sapeva una più del diavolo – e anche quella sera, infatti, teneva banco, tra un bicchiere e una mano di baccarat, coi suoi formidabili aneddoti di pistole, ricatti, sette segrete non così segrete e donnine allegre. E i suoi altrettanto allegri compari non erano da meno, a cominciare dai due esploratori Fernadello e Warrior, appena tornati dall’ennesima spedizione in lande sconosciute ma non certo vergini, per arrivare ad un celebre luminare, con ancora addosso il camice della Ubratta Corporation (e non sapete che fatica trattenere le battute sul virus T e gli zombi e i grossi fucili di Milla Jovovich), passando per un rinomato Talent scout, il castigamatti dei niubbi, ma se passi il suo esame sei a posto per la vita.

-----

E dietro il bancone c’era Ben. Cristo, quell’uomo di scotch ne sapeva più di me – e io, vi giuro, ne so un bel po’, perché ho spesso sete, e quando hai spesso sete due o tre cosine sui torbati le impari. Mi fece un cenno a chiedermi se volevo da bere – era l’unica maniera per comunicare a cinque metri di distanza, visto il casino. Io alzai tre dita in orizzontale, a significargli di non essere tirchio. Ben sorrise, e fu molto generoso. Avvicinatomi a prendere il mio scotch, gli chiesi anche un bicchiere di barolo. Avevo visto il mio uomo, e sapevo come ammorbidirlo.
Stava appoggiato ad una colonna, e guardava rapito lo spettacolino lesbo-incestuoso di due sorelline thai che si strusciavano lascive sul palco. Da dietro le quinte, Cochis, il loro scopritore, se le coccolava con gli occhi, e sapendo quali delizie le due gli riservavano su base regolare ne aveva tutte le ragioni. Miami, il suo delfino, secondo in comando del cartello thai, stava poco distante, conversando fitto fitto con un figuro decisamente losco, un picchiatore della mala la cui specialità era ben resa dal nomignolo che gli avevano affibbiato – Maxi Misura. Qualunque cosa accada, fate in modo di non trovarvi dalla parte sbagliata del suo randello.

Allungai il barolo al corriere. Lui lo accettò, guardandomi con aria sorniona.
“Strano vederti qui. Credevo che non scendessi mai dal tuo autotreno, Corriere”, gli dissi.
“Sempre in tir non è un luogo, è uno stato dell’anima, pivello”, rispose lui indicandosi il pacco. Il più maledetto caso di priapismo costante che avessi mai visto. Mi sentii un idiota a non aver capito da solo il doppio senso.
&ldquo’altronde” continuò il corriere, “neanche tu sei davvero un Santo, o sbaglio?”
Cercai di riguadagnare terreno: “Infatti: sono un musicista. Perlomeno ora ho la certezza che porti i boxer e non gli slip. Possiamo parlare?”
Lui indicò un tavolino, da dove comunque si poteva ancora godere lo spettacolo.
La mossa successiva toccava a me – e sarei andato dritto al punto.

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Dritto al punto… ma anche no, perché non feci in tempo ad aprire bocca che venni aggredito da una virago tettona coi capelli imbizzarriti di Medusa.
“Tu, Santo dei miei stivali! Stai lontano dal mio tesoruccio!”
“Chiedo scusa, madame... ci conosciamo?” – io ero perplesso; il Corriere sembrava divertito.
“Beh, io di certo ti conosco! Tu sei quel detective giuda traditore, che picchia le donne, drogato fino alle orecchie, pieno di gonorrea e di sifilide e di chissà cos’altro, scappato da casa e poi dal manicomio, posseduto dal demonio e controllato dagli alieni con le antenne di stagnola!”
La guardai da sotto in su cercando di rimanere serio: “Ok. Dimmi qualcosa che già non so”.
Lei riprese in quarta: “Beh, sai la biondina all’entrata? Lei ci limona, con quel gatto puzzolente! E hai presente la brasiliana ciucciona? Paga Maxi Misura perché vada a randellare la concorrenza. Per non parlare poi di…”
Per mia fortuna, il corriere la fermò quasi subito – cominciavo a temere che mi avrebbe cavato gli occhi: &ldquoai, Caterina, comportati bene. Non devi dire queste cose del mio amico, qua. E’ un po’ sgarrupato, è vero, ma l’è in brav fanciot”.
“No, aspetta”, dissi io; “c’è qualcosa di vero, in tutto questo?”

Lei sembrò calmarsi e mi sorrise, questa volta con dolcezza. Sembrava improvvisamente lucida.
“La verità è un insetto rosso che si riflette su un vetro viola”, sussurrò. Poi le cadde lo sguardo goloso sul priapico pacco del corriere; glielo stropicciò un pochino, gli fece un occhiolino lascivo, e finalmente ci lasciò ai nostri affari.

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Il corriere assaporò un sorso di vino.
“Allora, giovanotto, cosa posso fare per te?”
“Mi dicono che hai rifilato un pacco a uno di fuori. E mi pagano per vederci chiaro”.
Lui avvampò: “Stammi bene a sentire. Io faccio solo le consegne. Ritiro, sigillo, trasporto e consegno. Da quando prendo il carico a quando lo mollo, niente può toccarlo: i miei sistemi di sicurezza vengono direttamente dalla Ubratta Corporation!”.
Il tizio sembrava sincero, e la sua reputazione era cristallina. Se c’era un fregone, questo non era lui, e me lo dimostrò porgendomi una chiavetta USB: “Qua ci sono tutti i dati di viaggio”, sussurrò con aria complice: “Analizzali e vedrai che nessuno ha aperto il carico da quando l’ho ritirato a quando l’ho consegnato”.
Agguantai la chiavetta senza farmelo ripetere: “Puoi scommetterci. Che c’era nel pacco?”
“Prima regola del fight club: non si parla del fight club. Io non faccio domande”.
“E il mittente?”
Il corriere mi guardò un po’ torvo, poi decise di fidarsi – in fondo ne andava anche della sua reputazione, e aveva tutto l’interesse a che il caso fosse risolto.
“Solo una sigla”, disse sottovoce: “VCeNO”.
Conoscevo quel nome. Ufficialmente, si occupava di import-export. In realtà, era un trafficante d’arte specializzato in oggetti dall’estremo Oriente. Il migliore.
La faccenda si era appena fatta molto, molto interessante.

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Ellis estrasse la chiavetta: “Tutto a posto. Il corriere ha detto la verità: nessuna manomissione. Ciò che ha consegnato è ciò che ha ritirato”.
Bene, pensai; non è sul viaggio che devo indagare. E neanche sul mio cliente: avevo preso informazioni, e la magione di Cunnikiller era inespugnabile – impossibile che il pacco fosse stato sostituito a casa sua. Il torinese si era anche dimostrato piuttosto disponibile nel dettagliare cosa fosse l’oggetto in questione, e quando me lo disse sbiancai.
Eh sì, perché si trattava del Dildo di Giada dell’Imperatrice Aima (non chiedetemi il periodo, la dinastia o qualunque altra cosa usino i cinesi per contare le fasi dell’Impero: è già tanto se so che noi avevamo i Savoia). Quello che sapevo è che era un oggetto leggendario, che l’Imperatrice usava per trastullarsi quando l’Imperatore viaggiava per le province più lontane dalla Città Proibita e neanche i suoi numerosissimi amanti le bastavano più. Una vera donna-drago, l’Imperatrice.
Il Dildo era ricomparso qualche anno prima, quando qualche burocrate cinese si era reso conto che poteva farci dei bei soldi. In quanti passaggi fosse arrivato a VCeNO non saprei dirlo, ma ero certo che nel passaggio successivo il trafficante si fosse ritagliato un bel margine.

Escluso Cunnikiller, dunque, ed escluso Sempre In Tir. Ed escluso anche VCeNO: nel suo lavoro la reputazione era tutto, e lui era troppo sveglio per rovinarsela rifilando un falso ad un cliente importante – sicuramente il dildo che era uscito dal suo caveau era quello vero. Questo lasciava una sola possibilità: che il falsario l’avesse sostituito tra il momento in cui era arrivato al deposito alessandrino di VCeNO e l’istante in cui il Corriere l’aveva preso in consegna. E infatti tra quei due momenti erano passate sei ore.
Poi, la consapevolezza mi colpì con la forza del randello di Maxi, delle zappe di Frankie e dell’autotreno di Tir – tutti insieme.



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“Ma certo! Come ho fatto a non capirlo subito? Eppure me l’ha detto così chiaramente!”
Ellis mi fissava perplessa sgranando quei suoi occhioni smeraldini, e non riusciva a dare un significato alla mia risata di trionfo. Le presi le mani e gliele baciai, squadrandola da sotto in su con la mia aria più malandrina.
“Ascolta: così come nella paglia c’è un ago, anche nei deliri di Caterina a volte c’è la verità, basta saperla vedere. E stavolta è stata chiarissima: l’insetto rosso e il vetro viola!”.
O meglio, il Dittero Scarlatto e la Vetrina Purpurea. Si trattava di due cartelli criminali al femminile. Gente tosta, con cui era meglio non scherzare, ed entrambi assoldavano solo donne, o al massimo donne pitonate, se capite cosa intendo.
Cercavano di non pestarsi i piedi – o meglio, di non spezzarsi i tacchi; ergo riuscivano a coesistere senza finire in guerra. A dire la verità, sospettavo che la loro concorrenza fosse una montatura, e che molte ragazze di un’organizzazione avessero le mani in pasta anche nell’altra, e viceversa. Ad ogni modo si erano divise più o meno equamente il sottobosco criminale della città, e più spesso che no i falsari stavano in Vetrina, se capite cosa intendo, anziché volare a dorso di Dittero. Me l’aveva confermato pure Caballero.
Bene: avevo capito cos’era successo ed avevo ristretto la ricerca, ma ancora non avevo un nome.
Ma sapevo come procurarmelo.

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Karina tutto sembrava, tranne che il ventiduesimo boss del Dittero Rosso. Portava un impeccabile tailleur pantalone gessato, senza camicia, i capelli raccolti e gli occhiali raffinati che le davano un’aria decisamente corporate. Io sapevo bene che se qualcuno poteva avere interesse a dar fastidio alla Vetrina era il Dittero, e lei sapeva altrettanto bene che a farmi un favore e mettermi in debito con lei ci avrebbe solo guadagnato – quel genere di cosa per cui alla fine sono tutti contenti.
Tutti, a parte il falsario.

La giovane manager ascoltò interessata la mia storia, e mi rese le cose facili. Male: dandomi il suo aiuto apparentemente senza contrattare, in realtà mi rendeva ancora più debitore. Mi avrebbe tenuto nel taschino del tailleur, tirandomi fuori nel momento del bisogno come un asso dalla manica, e già sapevo che l’avrei pagata cara – ma questa è un’altra storia.
“Bene, tesoro”, sussurrò con quel suo vocino sexy, “c’è solo una donna che è in grado di fare una cosa del genere. Truffatrice extraordinàire, ça va sans dire. Si fa chiamare Charlize, e porta solo guai. Vuole dare la scalata alla Vetrina e diventarne il capo, ma per farlo le servono soldi, molti soldi: e sostituire il Dildo di Giada per poi rivenderlo è decisamente nel suo stile. Voilà, tesoro: la tua Karina, come sempre, ha la soluzione a tutti i tuoi problemi”, mi disse sensuale mentre mi sfiorava le labbra con la punta delle dita.
Sorvolò elegantemente sul prezzo che avrei pagato.
“Un momento. Si fa chiamare… ma stai scherzando?”
Lei sorrise divertita: “Proprio per nulla. E’ un orribile botolo che sta rintanato nel suo covo, ma come alter ego usa l’immagine di Charlize Theron. E ha un nugolo di fedelissimi che paga profumatamente e che per lei farebbero di tutto, una banda di picchiatori che si fa chiamare i Troll”.

Un botolo – ci vuole del coraggio.
Un covo segreto – ci vuole un esploratore.
Un dildo da autenticare – ci vuole un esperto.
Una folla di Troll – ci vuole un picchiatore.

In poche parole, mi serviva una banda.

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Fernadello l’esploratore e Caballero l’esperto di falsi non furono un problema. E in fondo neanche il Cuor Di Leone: un vecchio amico, ora ritirato a vita privata, era abituato ad andare sotto copertura nelle strade più buie, ed eravamo ancora in contatto. Si faceva chiamare Idropenesauro – che fosse per la ferocia del suo morso, o per la sua capacità di sparire non visto in mille rigagnoli, non cambiava il fatto che aveva fegato. E tanto.
Come picchiatore avevo pensato di ingaggiare Maxi Misura, ma il tipo mi sparò una cifra improponibile, che avrei avuto difficoltà a giustificare con Cunnikiller. Allora presi il telefono.
“Pronto?”
“Ciao Maestro, come stai? Mi servirebbe un favore”.
Dall’altro capo del filo, sentii distintamente il padrone della Bisca sogghignare.
“Come quella volta che volevi comprare Gallina e Rovida per avere il monopolio dei dolcetti?”
Lo sapevo – avrei pagato quella boutade fino alla fine dei miei giorni.
“Ehm. Beh, come quella volta, ma un po’ meno. Mi serve Frankie”.
“E a cosa ti servirebbe? No, non dirmelo, non lo voglio sapere. Va bene, va bene: se riesce a far partire quel catorcio arancione te lo mando in ufficio”.
“Grazie, Maestro. Sono in debito”.
“Seeeee, come no. Mo’ me lo segno. Insieme a tutti gli altri. Hai pagato Ben, ieri sera?”
“Oh, maledetta Wind, non ha mai campo. Pronto? Pronto? Non ti sento!”

E così ci ritrovammo – in cinque contro Charlize e i suoi Troll. Alla ricerca del Dildo di Giada.
Beh, ero uscito vivo da situazioni ben peggiori.

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Karina mi aveva procurato le mappe digitali del covo del botolo. Fernadello, nel retro del furgone, le stava studiando sui due schermi al plasma, cercando di trovare le migliori vie di fuga. Lui sarebbe stato i nostri occhi e le nostre orecchie, ci avrebbe guidato passo per passo e soprattutto si sarebbe inserito in remoto nel sistema di sicurezza del covo.
Io e gli altri infilammo gli auricolari. Vestivamo di nero, eravamo pesantemente armati ed eravamo pronti. Presto i Troll avrebbero scoperto che eravamo più di quanto potessero addentare.
Idro aprì il doppio fondo del furgone e rimosse il tombino immediatamente sottostante (Dio, adoro queste cose!); in perfetto silenzio ci calammo nel buio. Se fosse andato tutto bene, nessuno ci avrebbe visto né entrare né uscire.
Dopo una manciata di metri, arrivammo all’entrata trovata da Fernadello. Furba, Charlize. In caso di problemi aveva attrezzato il covo con diverse uscite di emergenza, di cui una nelle fogne – quella che avevamo ora davanti a noi. Peccato che, come mi disse una volta un amico amante dell’anale, “ciò che lascia uscire qualcosa può far entrare qualcos’altro”. Frankie rise, e aggiunse: “E ciò che sta entrando ora ti farà molto male, botolaccia!”

Fernadello ci guidò per alcuni minuti attraverso il labirinto. Aveva azzerato i sistemi di allarme, quindi nessuno si era ancora accorto di noi; ma poco prima del sancta sanctorum di Charlize, i suoi cani da guardia ci intercettarono. Idro e Frankie si gettarono immediatamente su di loro: “Voi andate avanti! A questi Troll puzzolenti pensiamo noi!”.
Caballero ed io non ce lo facemmo ripetere. Ancora pochi metri ed avremmo recuperato il Dildo di Giada: tutto ciò che ci serviva era un po’ di tempo, e Frankie e Idro ce lo stavano procurando.
Ci sbarazzammo rapidamente dei due Troll di guardia al salone, e lo vedemmo. Stava su un piedistallo al centro della stanza, illuminato da un occhio di bue. Il Dildo di Giada.
Ma prima di sgraffignarlo avremmo dovuto verificarne l’autenticità – non potevo certo portare a Cunnikiller un altro falso. Stavo per prendere il Dildo per porgerlo a Caballero, quando lui mi fermò, indicandomi di calarmi sugli occhi il visore a infrarossi.
Cazzo. Il piedistallo era circondato da raggi rossi.
Caballero sorrise, trasse un paio di manipolatori a pantografo dalla tracolla e lentamente li infilò attraverso la griglia di raggi. I sensori su quei due affari (mi sembravano roba da Wile E. Coyote, mi aspettavo di vederci sopra la scritta ACME) gli confermarono che era “the real thing”, e lui mi fece un cenno di assenso. Io lo ricambiai, per dirgli di procedere.
Quando i manipolatori sollevarono il Dildo dal piedistallo, si sentì un CLIC, Caballero disse “Uh oh”, e io dissi “Cazzo”. Una frazione di secondo dopo eravamo in trappola.

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Una paratia d’acciaio da almeno un pollice sigillò l’entrata del salone.
Uno schermo al plasma si accese all’improvviso, e dall’effetto neve passò all’inquadratura di un paio di tettone con un paio di braccione che reggevano un chihuahua rincoglionito che quasi spariva tra le pieghe di grasso. L’effetto era grottesco.
Il viso non era inquadrato. La voce era contraffatta.
“Ma bene, bene, bene, cosa abbiamo qui? Due topolini in cerca di formaggio?”
Io sogghignai: “Miss Charlize, presumo. Non posso dire che sia un piacere”.
La cicciona contraffatta ridacchiò: “No, nella vostra attuale situazione posso capire che non lo sia. Poveri ingenui. Davvero pensavate di potermela fare?”
“In tutta sincerità, sì. Beh, suppongo che la vita vada così – a volte si vince, a volte si perde… e stavolta potremmo pareggiare. In fondo, ora ti aspetti che noi si mercanteggi il Dildo per l’uscita, giusto?”
Lei ridacchiò di nuovo: “Sbagliato. Mi aspetto che moriate, Mr Saint”.
Un gas giallognolo cominciò a filtrare sibilando da una serie di ugelli nascosti chissà dove. Furba, la cicciona. Noi saremmo morti soffocati, ma il Dildo non si sarebbe danneggiato, e lei avrebbe potuto recuperarlo una volta “areato il locale prima di soggiornarvi”. Puttana.

-----

Caballero urlava nel microfono dell’auricolare: “Fernadello! Tiraci fuori da qui!”
Il gas stava lentamente riempiendo la stanza; avevamo sì e no un minuto. Le tettone ballonzolavano nello schermo, e dagli altoparlanti si sentiva la folle risata della cicciona.
“Non posso! Mi hanno sbattuto fuori dal sistema, mi servono cinque minuti per resettare!” rispose concitato Fernadello.
“Non ce li abbiamo, cinque minuti!”
Un’altra voce si inserì nella comunicazione: “Ci pensiamo noi. State lontani dalla porta”.
Amo il C4. Stabile, controllabile, direzionabile. E amo chi lo sa usare – nello specifico, i due colleghi che evidentemente si erano sbarazzati dei Troll.
La paratia d’acciaio esplose verso l’interno, e fece un volo di cinque metri atterrando sul piedistallo; io guardai preoccupato Caballero, lui sollevò il pantografo, che ancora reggeva il Dildo, e mi elargì un sogghigno.
Idro e Frankie ci agguantarono e ci portarono fuori dal salone; la risata della cicciona si era trasformata in un ringhio di rabbia. Tra il fumo dell’esplosione ed il gas mi parve di vederla, sullo schermo, premere un altro grosso pulsante. Una sirena, un lampeggiante rosso, un conto alla rovescia.
“Merda”, esclamò Idro.
“E che ti aspettavi?”, rise Frankie: “Ogni base segreta che si rispetti ha l’autodistruzione!”
Cominciammo a correre come se avessimo alle spalle tutti i diavoli dell’inferno – e Maxi Misura col suo randello.

-----

A meno tre secondi avevamo di fronte a noi l’uscita nelle fogne. Ci buttammo a pesce.
L’esplosione fu assordante, macerie, fumo e fiammate che uscivano dal passaggio. Ci coprimmo la testa con le braccia.
Passò un lungo minuto, prima che tossendo e sputando ci levassimo in piedi, sollevandoci dai liquami di Lisòndria.
Frankie ridacchiava: “Cazzo, Saint. Mi metti nella merda tutte le volte”.

Vi risparmio i commenti di Fernadello sul nostro odore quando tornammo nel furgone. Io ricordai a tutti loro il sontuoso bonus che Cunnikiller ci avrebbe riconosciuto per il recupero del Dildo, e i capricci gnè gnè gnè della cicciona quando avevamo salvato la pelle dalla camera a gas. Cominciammo tutti a ridere, la risata nervosa di chi se l’è appena vista brutta.
Tenni per me l’osservazione che ci eravamo appena fatti un potente nemico, che sicuramente avrebbe cercato vendetta. Meglio pensarci un altro giorno, restituire il Dildo, farci una doccia e festeggiare alla Bisca.
&ldquoimmi solo una cosa, Caballero. Ma quegli affari sono dell’ACME?”
Lui scoppiò a ridere: “Ancora meglio: Ubratta Corporation!”

Due giorni dopo suonò il telefono. Conoscevo quel numero.
Cazzo, speravo che Karina avrebbe aspettato un po’ di più, prima di riscuotere.
“Mi hanno detto che ve la siete cavata bene, tesoro” – quella vocina era ancora più sexy, al telefono.
“Sì, tutto sommato ci siamo difesi. Che cosa posso fare per te?” le risposi, sperando che il prezzo non fosse troppo alto.
&ldquoritto al punto, eh? Bene, mi piace. Allora dimmi, Saint: che cosa sai dell’Enigmista?”

Un brivido mi corse lungo la schiena. Attesi un paio di secondi, prima di rispondere.

Ma questa, di nuovo, è un’altra storia.



FINE! (per ora...)




Gli amici Mandrogni, esaltano e ringraziano:
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fernadello
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Maestro, un grazie a nome mio e sicuramente a nome di tutti gli iscritti della sezione Piemonte.
... e come disse Cesare dall'alto di un palazzo tante grazie dei doni, tante grazie al ...
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