Cap. VI - “Alzata con pugno e il Sasquatch ”
Era parecchio tempo che mi frullava nella testa un desiderio : portare Gigggetto a caccia nel grande nord americano.
Purtroppo il mio “grosso” amico ha un problema gigantesco : ha una paura folle di volare.
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Per convincerlo impiegai tutti i mezzi leciti e illeciti possibili; addirittura feci intervenire anche Teresa per fare in modo che curasse, sotto l'aspetto psicologico, il problema.
La mia compagna prese subito a cuore il suo problema, e con una serie di sedute (cene del sabato sera) riuscì ha convincerlo.
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Probabilmente influì anche il fatto che Teresa preferiva sapermi in giro per il mondo con un fucile piuttosto che al lavoro in qualche paese “disagiato”; e meno male che non gli raccontavo tutto. :
Finalmente si convinse, e diedi via ai preparativi : spedizione delle armi e bagagli (operazione semplice se non fossimo in Italia) tramite l'outfitter canadese a cui avevo delegato l'organizzazione della “vacanza”.
Il giorno della partenza, visto che aveva un po' di tempo, pregai Teresa di accompagnarci, perchè ero sicuro che il “bambinone” avrebbe fatto i capricci all'ultimo momento. :
Non mi sbagliai, Teresa e la moglie di Gigggetto dovettero prenderlo sottobraccio e portarlo pian pianino verso la zona d'imbarco; un uomo che stesse salendo al patibolo sarebbe stato più allegro.
Sull'aereo (per fortuna avevamo beccato la fila centrale) mi premurai di avvertire le hostess che il mio amico aveva paura di volare; in effetti durante il volo le assistenti si fecero veramente in quattro per rendere il volo più confortevole possibile.
Arrivammo a Toronto in perfetto orario; purtroppo non era stato possibile trovare un volo diretto dall'Italia per Vancouver, per cui dovemmo cambiare aereo; al momento di salire sul Boing della Air Canada, Gigggetto ricominciò ha fare i capricci :
“Chi me la fatto fare, non ce la faccio più, ho paura etc.”
Lo guardai con lo sguardo più cattivo possibile e gli risposi :
“A questo punto siamo oltre il punto di non ritorno, abbiamo speso un sacco di soldi, sali sull'aereo e stai zitto o ti prendo a calci in c....o !”
Capì che non scherzavo e mogio mogio salì sull'aereo”
A forza di frequentare per lavoro gente “dura”, stavo diventando come loro.
A Vancouver, c'era il terzo cambio aereo da fare; per fortuna non c'era da aspettare e salimmo subito sul 737 per WhiteHorse; ormai Gigggetto era “soggiogato” da me e mi seguì senza tante cerimonie.
Per fortuna il volo durò abbastanza poco (almeno rispetto ai 2 precedenti); l'unica cosa che disse è che gli dispiaceva che gli aerei fossero sempre più “piccoli”.
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Pensai, ovviamente senza dirgli niente :
“Aspetta di vedere l'ultimo...” :
All'aeroporto di WhiteHorse trovammo il responsabile dell'organizzazione con armi e bagagli ad aspettarci; caricammo tutto sul suo pick-up e ci avviammo all'ultimo imbarco.
Gigggetto mi chiese subito, sottovoce, perchè non partivamo dallo stesso aeroporto dove eravamo arrivati. :
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Semplicemente, gli dissi, perchè gli idrovolanti partono da specchi d'acqua.
“I-d-r-o-v-o-l-a-n-t-i ?”
Incominciò lentamente a cambiare colore.
Quando arrivammo all'imbarcadero dove c'erano gli idrovolanti, completò la sua trasformazione; ora era bianco “cadavere”.
Non aiutò nemmeno ha caricare i bagagli sull'aereo; facemmo tutto io e il tizio dell'organizzazione, mentre lui continuava ha guardare fisso l'aereo sempre più sbigottito.
Era uno dei più diffusi in Canada, un DHC-2 con motore “stellare” a pistoni, un po' arrugginito, bianco e rosso degli anni '50.
Quando vidi arrivare anche il pilota, anch'io cominciai però ad avere qualche perplessità; ovviamente feci finta di nulla per non spaventare ulteriormente il mio amico.
Il pilota era un tizio piuttosto grassottello, cappellino da baseball in testa, barba e capelli lunghi, Ray-ban a specchio; mi preoccupava sopratutto il pacco da 10 lattine di birra che teneva in mano e che mise velocemente con i nostri bagagli. :
Salimmo sull'aereo, io davanti con il pilota, Gigggetto, visto la taglia, dietro.
Per avviarsi, l'aereo impiegò qualche minuto, tra fumate nere e bluastre e “sputacchiamenti” vari.
Una volta stabilizzato il motore, il pilota mollò il cavo con cui l'idro era legato al pontile, e iniziò a rullare verso il fiume.
Per decollare il pilota portò l'aereo sul fiume, lo dispose in favore di corrente e diede “manetta”.
Decollare da uno specchio d'acqua non è come decollare da una pista di cemento, e sopratutto il monomotore a pistoni non è un come un moderno jet passeggeri. :
Il rumore era assordante, tutto vibrava; mi girai verso Gigggetto per tranquilizzarlo : vidi solo 2 occhi iniettati di sangue che mi guardavano; sorrisi e gli feci segno “tutto ok”.
Almeno speravo.
Dopo una breve rincorsa, lentamente, molto lentamente ci alzammo sul fiume.
Guardai il pilota : era calmo e rilassato, come se andasse a spasso in bicicletta; aveva anche tirato fuori un grosso sigaro e se lo era messo in bocca; per fortuna non l'aveva acceso.
Per rompere un po' il ghiaccio, chiesi al pilota da quando faceva quel lavoro.
Mi rispose che faceva servizio di fly-inn da circa 4 anni; in pratica da quando aveva chiuso il suo rapporto ventennale con la USNavy; ex-pilota di F-14, dopo la prima guerra del golfo aveva deciso di “pensionarsi” e godersi un po' la vita, e visto che aveva sempre vissuto in California si era trasferito in Canada.
Per farci vedere come si volava nella USNavy iniziò a zigzagare tra le piante che costellavano il fiume a non più di 20-25 mt d'altezza, passando spaventosamente vicino, troppo vicino per i miei gusti , alle chiome degli alberi.
Evitai di voltarmi per guardare il mio compagno; forse era meglio se fossi stato zitto. :
Il volo durò circa 2 ore; l'atterraggio fu come il decollo, solo che essendo seduto davanti vedi arrivarti incontro tutto troppo velocemente (almeno ti sembra); ma mi tranquillizzai subito; pensai che portare le 20 tonnellate di un F-14 ad atterrare sul ponte di una portaerei, di giorno e di notte con qualsiasi tempo, sia molto più difficile di quello che stava facendo adesso. :
Il lodge dove eravamo arrivati era una specie di piccolo villaggio composto da una decina di casette tutte in legno, affacciate su un grande lago; tutto intorno, boschi, altri laghi, fiumi, torrenti e montagne.
Un'ambiente idilliaco, dove forse tutti vorremmo vivere.
A motore spento, arrivammo all'unico pontile che s'inoltrava nel lago, dove ci stavano aspettando un paio di uomini e alcuni ragazzini schiamazzanti.
Uno dei 2 uomini era il responsabile del lodge e ci aiutò a scaricare i nostri bagagli sul pontile; ultimo a sbarcare era Gigggetto, ovviamente in uno stato pietoso.
Sembrava come se fosse appena stato ripescato da una lavatrice, dopo una centrifuga di parecchie ore.
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O forse era semplicemente la mancanza di ore di sonno (non avevo uno specchio per controllarmi). :
Con il responsabile del lodge, andammo armi e bagagli al campo base, alla periferia del villaggio; una casetta tutta in tronchi d'albero, con veranda sul lago;erano presenti tutti i confort : acqua corrente (dietro la casetta c'era un torrentello che sfociava nel lago), WC (una garitta ad una cinquantina di metri , bagno (una tinozza di legno nel giardinetto di fronte alla casetta).
All'interno una decina di posti letto (brandine e coperte militari) e angolo cottura (fornello a gas con 3 fuochi, 4 pentole di varie misure e un po' di stoviglie varie).
Più o meno la dotazione che puoi trovare anche da noi nei rifugi alpini in alta quota (quelli molto vecchi ovviamente).
Mentre ci sistemavamo nel campo base, il responsabile ci comunicò che c'era un problema.
Pensai subito “Ahi, ahi, ahi, comiciamo male....”
Una delle 2 guide professioniste del campo, non era ancora rientrata, in quanto un gruppo di cacciatori che ci aveva preceduto nelle settimane precedenti avevano ferito un grizzly; i cacciatori erano tutti rientrati, ma ovviamente non si poteva lasciare in giro un grizzly ferito (ed incazzato) per cui una delle guide era ripartita per risolvere la questione.
Decisi subito di lasciare la guida professionista a Gigggetto (in fondo l'avevo trascinato io fin qui, non potevo andare a caccia sapendolo fisso al campo ad oziare).
Subito il responsabile del campo aggiunse però, che comunque se volevo, aveva pronta un'altra soluzione per me.
Ok, mi va bene tutto (piuttosto che restare al campo ha fare foto o bighellonare nei dintorni del villaggio). :
Quella sera andammo ha dormire prestissimo, anzi restammo secchi tutti e due, nonostante le brandine da campo non fossero il massimo della comodità.
Al mattino, quando ci svegliammo, trovammo il disastro : dei procioni erano entrati nella casetta da un pertugio di aerazione e ci avevano “disfatto” i bagagli.
Per fortuna erano solo procioni “curiosi”, in cerca di qualche manicaretto da mangiare; basta fare un po' di rumore e se ne vanno da dove sono venuti; diverso sarebbe stato se invece dei procioni fosse stato qualche black bear.
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In questo caso finisce sempre a schioppettate (“Ricordarsi di andare armati alla toilette” c'era scritto sulla porta della casetta).
Impiegammo una buona mezzora a rimettere tutto a posto, dopo di chè fummo pronti per la partenza.
Puntuali alle 07:00 arrivarono il responsabile del campo e la guida di Gigggetto; controllo della sua attrezzatura (in pratica volle vedere il fucile e il coltello); soddisfatto, restituì il tutto e partirono; avevano davanti 8 giorni di “caccia vera”.
Prima di partire, si girò verso di me e lanciò il suo classico grido di guerra “Fatla bùna mat !”
“Anca ti. “ gli risposi.
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Ora toccava a me; presi il mio zaino, tenda singola, sacco a pelo, il Weatherby Mark V calibro .300Weatherby e il binocolo al collo; una quarantina di kg malcontati da portare a spasso.
Con il responsabile mi avviai verso la periferia del villaggio; percorremmo circa 400 mt., e ci fermammo davanti ad una casetta tutta colorata che dava direttamente sul lago; davanti alla casetta c'erano 3 indiane, 2 molto vecchie e una più giovane che sistemavano (forse cucivano) delle reti da pesca.
Il responsabile iniziò ha parlare con la donna più giovane in un dialetto locale che non capivo; alla fine del discorso, la ragazza fece cenno di sì, mi guardò “accuratamente”, dopo di che rientrò in casa.
Il responsabile mi disse che aveva accettato di farmi da guida; era un'indiana che conosceva come le sue tasche tutta la regione.
Alcuni mesi prima aveva perso il marito (anche lui guida indiana); era morto annegato durante una caccia all'alce; un maschio gigantesco li aveva attaccati ed era riuscito a rovesciare la barca su cui si trovava con alcuni turisti; i turisti si erano salvati, lui invece era rimasto impigliato sotto la barca ed era annegato.
Istintivamente me le toccai.
Dopo una decina di minuti, tornò fuori; si era cambiata, non aveva più la camicia a quadrettoni rossi e neri con i jeans sdruciti e le scarpe da ginnastica.
Ora aveva una veste di foggia indiana verde con un sacco di frange e guarnizioni in pelle che le arrivava alle cosce, pantaloni marroni aderenti e stivaletti indiani morbidi senza tacco; ovviamente tutto in pelle scamosciata (artigianato locale ?).
Sulle spalle aveva una sacca (una specie di rucksac sloveno in pelle), un Lee Enfield Mk II calibro .303 e bandoliera con un po' di cartucce.
In uno stivale aveva un coltellaccio da scuoio da far paura.
Mi fece un cenno e partimmo; anch'io avevo davanti 8 giorni di "caccia", con una vera “squaw” indiana.
“Wow !!”.
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Ho bisogno di esplorare e di sapere.... sempre.